Questa storia è ispirata da un episodio raccontato più volte dal campione di apnea, Enzo Maiorca.
Era il settembre del 1967, ma a Siracusa sembrava estate piena. Faceva molto caldo. Enzo era ancora animato da un forte senso di competizione che aveva ereditato dalla sua attività di apneista. Prese il suo fucile subacqueo e andò giù, nel blu più profondo. Non aveva più paura del mare come quando era bambino. Adesso il mare era casa sua!
La muta, la maschera, le pinne e il fucile da sub sembrano confermare questa idea. Era l’idea di un uomo che aveva imparato a dominare la paura, a conoscere sé stesso e a superare i propri limiti. Era un’idea che sarebbe crollata, in pochi attimi, negli istanti successivi quando, sotto il suo sguardo, tra le rocce, si pose una bellissima cernia.
Un movimento furtivo tradì la cernia, grande e robusta, che cercava rifugio tra le tane sottomarine.

Il colpo fu preciso, ma non definitivo. Il pesce, ferito, si rintanò in una cavità, lottando con tutta la forza che le sue mandibole riuscivano a sprigionare. Enzo tirava, stringeva, ma la cernia resisteva, come se l’intero mare fosse dalla sua parte. Dopo minuti di sforzi, decise di guardare meglio. Passò una mano lungo il ventre della creatura per capire come fosse incastrata.
Fu allora che sentì un battito.
Era un cuore frenetico, terrorizzato. Enzo resto bloccato, incredulo. Sentiva il cuore dell’animale pulsare contro il palmo della sua mano. Quel battito non era solo quello di un pesce, ma di una creatura. Era terrore, resistenza, un grido silenzioso di ribellione. In quell’istante il grido del mare, con la sua potenza silenziosa, sembrava volesse comunicargli tutta la sua indignazione.
Decise di mollare la presa e liberare l’indifesa preda, lasciandola al suo destino.
Ma quel combattimento non si era concluso sott’acqua; si era trasferito dentro di lui, nella sua testa.
La trasformazione
Quella notte, Enzo non dormì. Ogni volta che chiudeva gli occhi, sentiva il cuore della cernia pulsare all’infinito. Sentiva il suo sospiro e si domandava se quella povera creatura fosse ancora in vita. In quel momento, comprese di non essere un cacciatore, ma un invasore. Inconsapevolmente, aveva seminato terrore dove la vita lottava per esistere. Lui, che aveva tutto sulla terraferma, non aveva alcun diritto di portare distruzione là sotto.
Da quel giorno, Enzo non prese mai più un fucile subacqueo in mano. “Era solo vanità,” avrebbe detto anni dopo. “La vanità di un uomo che si sentiva padrone in un mondo che non gli apparteneva.”
Il grido del mare
Negli anni seguenti, Enzo continuò a immergersi, ma con uno scopo diverso.
Nel 1988, scese a -101 metri, il suo record finale, accompagnato dalle sue figlie, Patrizia e Rossana, entrambe campionesse. Non era più una sfida contro il mare, ma un tributo alla sua immensità, un dialogo silenzioso tra l’uomo e gli abissi.
Quando parlava del mare, gli occhi di Enzo brillavano. “Mi ha insegnato tutto,” diceva. “Mi ha insegnato a vincere, ma soprattutto a rispettare, ad amare senza possedere. Il cuore della cernia, quel giorno, era il grido del mare. E io l’ho sentito.”